Chi lavora è perduto (1963): un film di Tinto Brass

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Chi lavora è perduto

Titolo originale: In capo al mondo ( prima versione)

Anno: 1963

Paese: Italia

Genere:drammatico

Casa di Produzione: Franco London Films,Zebra Films

Durata: 1h 21m

Regia  Tinto Brass

Sceneggiatura Franco Arcalli, Tinto BrassGian Carlo Fusco

Montaggio T.Brass

Dop: Bruno Barcarol

Attori: Sady Rebbot, Pascale Audret, Franco Arcalli, Tino Buazzelli. Piero Vida, Enzo Nigro

Trailer di Chi lavora è perduto

Trama di Chi lavora è perduto

La pellicola potrebbe essere descritta come un lungo monologo interiore del protagonista, un giovane appena laureato e in cerca di un lavoro, che s’interroga sul proprio futuro, ricordando gli insegnamenti religiosi e la giovinezza che la società lo esorta ad abbandonare per diventare un cittadino attivo e responsabile.

Tinto Brass e la sua prima fase cinematografica

Nel 1963 un trentenne veneziano esordì alla regia, lo stesso anno di pellicole del calibro di 8 e mezzo di Federico Fellini, I fidanzati di Ermanno Olmi, Il gattopardo di Luchino Visconti. Questo giovane autore fece comunque parlare di se con un film sperimentale e d’avanguardia dal titolo In capo al mondo.

Tinto Brass ai suoi esordi era ben lontano dallo stile soft core che lo rese famoso al grande pubblico, ma già faceva scandalo. La censura infatti esortò il giovane a mutilare pesantemente la pellicola, ma egli le cambio semplicemente titolo: Chi lavora è perduto, perfetta sintesi del pensiero anarchico e goliardico che il protagonista (e anche Brass) esterna per tutta la durata dell’opera, oziando per i vicoli ed i canali di Venezia.

Dal punto di vista formale, il giovane cineasta fa tesoro dei suoi anni di gavetta, passati prima a Parigi come archivista per la Cinémathèque, frequentata in quegli anni da molti rappresentanti della Nouvelle Vague, e in seguito come aiuto regista a fianco di personalità del calibro di Roberto Rossellini (per Il generale della Rovere, insieme a Ruggero Deodato), Alberto Cavalcanti (per La prima notte) e Joris Ivens (per il documentario L’Italia non è un paese povero).

Recensione di Chi lavora è perduto

Lo sguardo semi-documentaristico sulla città di Venezia è probabilmente frutto della sua esperienza con gli autori sopracitati (soprattutto Rossellini), mentre la totale libertà della struttura narrativa, costruita tramite un montaggio discontinuo che mescola diverse tecniche di ripresa e diversi piani temporali, deriva dalla lezione appresa dai maestri della Nouvelle Vague (con un diretto omaggio a Godard, di cui si vede una locandina in una breve inquadratura).

Ma quello che fece storcere il naso alla critica ed ai censori dell’epoca fu probabilmente l’incredibile naturalezza con cui il protagonista della storia, tale Bonifacio di 27 anni, si trova ad affrontare ogni aspetto della vita: dal sesso alla politica, dalla famiglia al lavoro, ma anche tematiche più serie e controverse come l’aborto; tutto è trattato con piglio satirico.

Fin dall’inizio il film ci catapulta nella testa del protagonista che, mentre corre freneticamente per andare ad un colloquio di lavoro, si ripete più volte: “Dai Bonifacio… Dai che ce la faccio”. Egli cerca di convincere se stesso che un’impiego sia la cosa più importante in quel momento della sua vita, ma cambia subito idea quando, dopo il colloquio, ripensa alle domande postegli dallo psicanalista del lavoro:

La prostituzione dovrebbe essere controllata dallo stato?

L’arte moderna non dovrebbe essere permessa nelle chiese?

Avere relazioni extraconiugali è più riprovevole per una donna rispetto ad un uomo?

Gli stranieri sono più sporchi degli italiani?

È difficile cantare come si deve l’inno di Mameli?

cit. Chi lavora è perduto

L’unica risposta che Bonifacio si dà a tutte queste domande assurde non è altro che: “cosa me ne frega a me, basta che mi danno il lavoro”. Ma subito dopo pensa “ma se poi non è un lavoro che fa per me… Che senso avrebbe?”. L’indecisione di un giovane cresciuto con dei valori tradizionali (il padre era un fascista), addestrato a pensare che gli unici obbiettivi della vita siano studiare, trovarsi un impiego e figliare. In questo semplice schema non c’è spazio per l’indecisione, ma è esattamente questo lo stato d’animo di Bonifacio, il quale si chiede se il lavoro fa per lui, se la vita borghese fa per lui. “Basta farsi tanti scrupoli; è ora di farsi furbo” pensa tra se e se. Questo la dice lungo su cosa pensi Brass della società in cui vive: gli schemi sociali ingabbiano l’individuo, portandolo a ragionare come la massa, ma il personaggio del film riesce, con l’ironia, a schernire certi schemi, sottolineandone l’assurdità, o rivelando la falsità di certi comportamenti. Come nella scena del funerale di un suo amico partigiano, dove i presenti non hanno niente di meglio da dire se non frasi di circostanza: “Se ne vanno sempre i migliori”. Oppure quando, alla vista di un prete vicino al canale, immagina di spingerlo in acqua provocando l’ilarità di una comitiva di bambini; ma, come lui stesso si dice, certi scherzi non si fanno, né da bambini né da adulti, perché ciò risulterebbe oltraggioso. Ma è solo un gioco e Bonifacio non sa spiegarsi il perché di tanta serietà.

La società cerca di spegnere nel protagonista la voglia di vivere, come nel ricordo del servizio di leva, quando venne detto ai nuovi arrivati: “Da ora non siete più uomini”. Nonostante l’umiliazione a Bonifacio scappa da ridere: “…Ma ridere non si può”.

La politica ha un ruolo fondamentale nel film, in quanto anche su questo argomento Bonifacio nutre diversi dubbi. Gli amici che lo circondano sono per lo più di sinistra, ma laddove Claudio riesce a far convivere la propria ideologia con un lavoro borghese, Tino impazzisce e viene messo in manicomio dopo essere stato picchiato da un gruppo di fascisti anni prima. I critici all’epoca non sapevano bene se parlare della pellicola come di un’opera anarchica o apolitica. Michelangelo Notariani scrisse su Cinema Nuovo n. 168 del 1964:

Il prepotente peso di una educazione familiare reazionaria e autoritaria, le ambigue imposizioni clericali, la negazione di una autentica e consapevole libertà sessuale, le conseguenze tragicomiche della decisione di far abortire la propria ragazza, le assurdità del servizio militare, il disgregarsi delle amicizie e della solidarietà giovanili, l’incapacità (o l’esclusione) dei militanti partigiani e sindacali a inserirsi in un deteriore “nuovo corso” (…) Brass ha tentato di includere, di proporre e di risolvere tutto questo in una esplosione di sensazioni soggettive alternate a immagini semi – documentaristiche, in un lungo e snervante monologo che si visualizza ricorrendo a ogni tecnica immaginabili

La conclusione del film non porta realmente ad una svolta, ma sovrappone sempre più fantasie del protagonista che s’immagina mentre svolge diversi impieghi, finché una visione mistica costringe Bonifacio a guardare in faccia alla realtà: l’immagine di Gesù sulla facciata di una chiesa lo ammonisce dicendogli che ormai non è più un bambino, ma un uomo “…Un òmo che no ha voglia de laoràr”. E a questo punto egli non può fare altro che accettare il fatto che, come tutti gli hanno sempre detto, “Il lavoro nobilita l’uomo. C’era anche scritto sul cancello di Auschwitz che il lavoro rende liberi”.

Note positive:

  • Il giovane Giovanni “Tinto” Brass ha le idee chiare fin dal suo esordio.
  • La potenza politica, mista alla goliardia, del giovane autore viene fuori con grande forza.
  • Lo stile registico, che mescola neorealismo e Nouvel Vague, è personalissimo ed intrigante.

Note negative:

  • L’audio non è sempre chiaro, sia dal punto di vista tecnico, sia per per l’utilizzo del dialetto veneto.
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